ARTE È. 20 ANNI DI MERANO ARTE

8 curatori che hanno collaborato con l’istituzione altoatesina presentano le opere di 18 artisti in grado di riflettere su temi sociali di grande attualità come il ruolo delle donne nella società, la migrazione, la digitalizzazione, la giustizia sociale, la pianificazione territoriale.

 

Dal 17 luglio al 24 ottobre 2021, Kunst Meran Merano Arte celebra i suoi 25 anni di fondazione e i 20 anni di attività della Kunsthaus nell’attuale sede sotto i portici, con la mostra ARTE È.

Si tratta di un progetto, ideato da Ursula Schnitzer, sviluppato in collaborazione con Martina Oberprantacher, che vede protagonisti 8 curatori e critici – Valerio Dehò, Luigi Fassi, Sabine Gamper, Günther Oberhollenzer, Andreas Kofler, Anne Schloen, Magdalene Schmidt e Susanne Waiz – che hanno avuto esperienze lavorative e di ricerca con l’istituzione meranese, contribuendo a plasmare la sua attività espositiva, e che propongono le opere di 18 artisti – Quayola, Ludovic Nkoth, Claudia Barcheri, Barbara Gamper, Maria CM Hilber, Selene Magnolia, Maria Walcher, Letizia Werth, Christian Bazant-Hegemark, Hannes Egger, Oliver Laric, Roberta Lima, Rosmarie Lukasser, Bernd Oppl, Simone Salvatore Melis, Erika Hock, Zora Kreuzer, Ludwig Thalheimer – in grado di riflettere su temi come il ruolo delle donne nella società, la migrazione, la digitalizzazione, la giustizia sociale, la pianificazione territoriale.

ARTE È si presenta come un coro a più voci che si costruisce attorno al fulcro rappresentato dalla frase “Le opere d’arte sono suggerimenti per esperienze future”, formulata dal teorico dei media e filosofo della comunicazione ceco, ma naturalizzato brasiliano, Vilém Flusser (1920-1991). Di origine ebrea, Vilém Flusser fuggì alle persecuzioni naziste in Cecoslovacchia, emigrando in Brasile assieme alla moglie Edith. Ritornato in Europa, alla metà degli anni settanta trovò ispirazione nella realtà di Merano, città termale dal carattere internazionale, con il suo multilinguismo, la sua storia caratterizzata da alterne vicissitudini e la sua collocazione geografica, situata al centro di una regione che, proprio in questi anni – dopo gli sconvolgimenti portati da due guerre mondiali e due regimi totalitari – raggiunse un modello esemplare di autonomia.

Per Flusser, il soggiorno meranese ricoprì un ruolo fondamentale per lo sviluppo delle successive teorie degli anni ’70 e ’80. Le contrapposizioni tra paese e città e tra montagna e pianura hanno assunto un’importanza crescente in relazione al binomio, centrale nel suo pensiero tra dialogo e discorso. Numerosi aspetti della sua impostazione teorica trovano un corrispettivo nelle questioni poste dalle mostre tematiche a Merano Arte: ad esempio, il dibattito sull’arte contemporanea o la concezione di sé e del proprio operato in qualità di associazione artistica.

Il percorso espositivo, suddiviso in sette sezioni, si apre con il focus, curato da Sabine Gamper, su tematiche legate alla cura e alla solidarietà, individuale come collettiva, verso i nostri simili e il nostro ambiente. La curatrice e le artiste affrontano, da una prospettiva femminista, i concetti di caring e sharing in qualità di categorie che necessitano di un urgente ripensamento in un futuro post-pandemico. Claudia Barcheri (1985) realizza oggetti lamellari in gesso dalla forma organica che richiamano animali corallini o funghi che, nonostante un’apparente fragilità, hanno una forza esplosiva. Barbara Gamper (1981) utilizza testi, oggetti e performance per affrontare il concetto di “appropriazione”, ponendo domande su condizioni, dinamiche di potere e privilegi nel mondo dell’arte e nella società. La scrittrice e artista Maria CM Hilber (1984) documenta, attraverso il ritratto filmico di una ballerina e attivista del movimento DisAbility, come il potenziale sviluppo della società potrebbe risiedere nella messa in discussione delle norme attraverso cui vengono trattate le persone ritenute più deboli. Maria Walcher (1984) si sofferma sul mestiere del lustrascarpe per mostrare la sottovalutazione sociale e l’invisibilità del lavoro di cura, mentre Letizia Werth (1974) parte dall’esempio del lavaggio dei vestiti per rendere visibili, nella sua pittura su parete, problemi globali della nostra società dei consumi. L’attivista e fotografa Selene Magnolia (1989) cattura con la sua macchina fotografica il salvataggio di un gruppo di donne nigeriane nel Mediterraneo.

A questa sezione si collega quella di Luigi Fassi, con una selezione di lavori dell’artista camerunese Ludovic Nkoth (1994), la cui pittura è uno strumento di scrittura del presente che si avvale di elementi eterogenei tra loro, come la geografia, la cronaca, le memorie personali, per registrare i rivolgimenti del mondo attuale a partire dalla sua biografia e dal suo muoversi fra due mondi. Sono le acque del Mediterraneo a essere protagoniste delle tele più recenti di Nkoth, dove corpi di giovani uomini e donne migranti appiano travolti da un elemento naturale, il mare, che pone una sfida alla loro sopravvivenza.

Anche la sezione curata da Susanne Waiz si concentra sulla società guardando allo spazio che definisce, come ad esempio quello cittadino, costituito da quartieri operai e ville residenziali, zone migliori e peggiori. L’edilizia popolare e i progetti di riqualificazione urbana testimoniano la costante ricerca di un miglioramento della qualità della vita e dello spazio abitativo. Parallelamente, in tutto il mondo continua ad aumentare il numero dei senzatetto e, anche nelle città europee con la più alta qualità della vita, migliaia di persone sono costrette a vivere “sotto i ponti”. La speculazione nel settore immobiliare promuove la diseguaglianza tra persone e mina convenzioni sociali ottenute con fatica.

Ludwig Thalheimer (1961) registra aspetti che spesso sfuggono allo sguardo, come alloggi improvvisati e ben mimetizzati, abitati da persone che durante la fuga hanno perso il proprio posto nella società. Le immagini sono accompagnate da interviste che riflettono la relazione che sussiste tra la speculazione immobiliare e la realtà dei senzatetto a partire dall’esempio di Vienna, intesa come caso esemplificativo di una città europea da un punto di vista di pianificazione urbanistica, culturale e sociale.

Andreas Kofler e Magdalene Schmidt affrontano, in qualità di team curatoriale, l’architettura nella regione altoatesina e le modalità attraverso cui viene presentata. Con il loro contributo esaminano il ruolo ricoperto da Merano Arte, per il quale il dialogo e il discorso sull’architettura nella regione alpina è stato uno dei temi centrali della propria ricerca che ha contribuito a un vivace dibattito, anche in relazione al turismo.

A partire da un confronto con la fondatrice ed ex direttrice di Merano Arte, Herta Wolf Torggler, lo sguardo rivolto al passato dell’istituzione si concentra su alcuni elementi d’archivio esposti come in una Wunderkammer, che mostrerà le tematiche e i dibattiti legati all’incontro tra l’architettura e il grande pubblico. Un altro contributo è incentrato invece sulla ricerca delle posizioni di una generazione più giovane di architetti. Questo ampio spettro di possibilità è affrontato attraverso una selezione – svolta in collaborazione con “Turris Babel”, la rivista della Fondazione Architettura Alto Adige – di tesi di laurea degli ultimi dieci anni dedicate all’Alto Adige. Tra esse figurano anche alcuni “frammenti architettonici” realizzati da Simone Salvatore Melis (1996) nell’ambito della tesi di laurea in design e arte presso la Libera Università di Bolzano dal titolo Anche i monumenti muoiono.

Anne Schloen indaga il valore sensoriale dell’opera d’arte attraverso i contributi di Zora Kreuzer (1986) ed Erika Hock (1981). Dal loro punto di vista, le opere d’arte, oltre a essere “suggerimenti per esperienze future”, possono essere anche possibilità di esperienze uniche. I visitatori e le visitatrici potranno così essere toccati e sollecitati da queste esperienze in un modo finora a loro sconosciuto e la loro percezione estetica potrà esserne rafforzata. Zora Kreuzer ha sviluppato un lavoro luminoso a parete site-specific per l’ambiente centrale della Kunsthaus, permettendo così una nuova visione dell’architettura dell’edificio. Erika Hock propone, invece, un’installazione di oggetti sulle pareti e nello spazio che confonde i confini tra arte, architettura e design e crea un collegamento sensoriale tra l’esperienza dell’oggetto e quella dell’immagine.

La sezione curata da Günther Oberhollenzer ruota attorno alla questione di quali forme espressive nuove e orientate al futuro stiano emergendo nell’arte del XXI secolo. L’interesse è rivolto in particolare al dialogo tra mondo analogico e digitale, all’ampliamento dei media artistici offerto dalle nuove possibilità tecnologiche nonché alla questione della percezione e dell’autorialità.

Rosmarie Lukasser (1981) guarda agli effetti delle reti digitali sulla percezione che le persone hanno di sé e degli altri attraverso fragili entità umano-artificiali in terracotta, ripiegate nel proprio mondo. Christian Bazant-Hegemark (1978) coniuga disegni digitali e analogici che rappresentano persone in un indefinito stato di attesa. Oliver Laric (1981) riproduce una famosa scultura attraverso elaborati processi di stampa 3D, mettendo in discussione la distinzione tra copia e originale. Bernd Oppl (1980) crea modelli architettonici e opere video che sfidano e ingannano la nostra percezione. Roberta Lima (1974) si avvicina, con un’installazione performativa, al “Wood Wide Web”, il sistema di comunicazione presente in natura. Infine, Hannes Egger (1981) crea degli inviti all’azione rivolti al pubblico, che potrà così interagire con le opere.

Anche nella pratica artistica di Quayola (1982), invitato da Valerio Dehò, il punto centrale è l’indagine sulle nuove tecnologie e sulle loro possibilità. Nella sezione “Futuro infinito”, l’uomo e la macchina hanno smesso di competere, l’arte si fa con quello che si vuole e con quello che anche l’industria propone. Quayola libera la sua arte da un presunto abbraccio mortale tra tecnologia e caducità. Ammira l’arte del passato, la rispetta al punto da farne una nuova però differente perché prodotta in un sempre diverso spazio-tempo. Quayola, che è un biologo, usa il digitale come un microscopio elettronico, entra nella struttura del paesaggio, lo confronta con la rappresentazione artistica rigenerandola come se fosse la prima volta che guardiamo le stesse cose di sempre.

 

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