A distanza di un anno e mezzo dalla prima inaugurazione che ha segnato, pur con le restrizioni successive, la nascita di un nuovo straordinario luogo d’arte e cultura nel cuore di Verona – con il restauro del più importante edificio seicentesco della Città e l’esposizione al pubblico delle opere della Collezione Carlon – Palazzo Maffei Casa Museo amplia la sua proposta culturale, proseguendo nel suo visionario progetto.
Il 23 ottobre, la Casa Museo riapre al pubblico con l’inaugurazione del secondo piano del Palazzo.
Ulteriori otto sale espositive e una project room, nuove opere e installazioni artistiche, spazi culturali per le attività e gli incontri come il “Teatrino di Palazzo Maffei”, con una platea di oltre 100 posti, i suoi sipari d’autore, sette straordinari affacci panoramici su Piazza delle Erbe e una biblioteca specialistica.
Con il restauro conservativo di stucchi, pavimenti, affreschi e pitture murali del piano superiore del Palazzo – tra i migliori lavori del pittore accademico veronese Pio Piatti – e con l’allestimento dei nuovi ambienti museali, la famiglia Carlon ha dunque proseguito il suo impegno nella valorizzazione dell’iconico edificio barocco, nella fruibilità della Collezione da parte del pubblico e nella promozione dell’arte contemporanea, grazie anche al coinvolgimento di uno dei più premiati creativi del panorama internazionale: Daan Roosegaarde, architetto, designer, artista innovatore olandese – tra gli young global leaders del World Economic Forum – ideatore di quella che lui definisce “tecnopoesia”.
Il percorso espositivo del secondo piano è un invito alla riflessione, ricco di suggestioni e stimoli. Qui le sale – ideate anche in questa occasione da Gabriella Belli, che ha curato il progetto museografico in relazione alle scelte e al gusto del collezionista Luigi Carlon – non seguono un fluire cronologico e tematico come al piano inferiore, ma rappresentano ciascuna un’entità a sé, un singolo episodio concluso di una vasta narrazione, che intreccia antico e presente, visione e aspirazione, realtà e sogno; ciascuna indipendente dall’altra per contenuto, ma tutte parte di un’unica idea progettuale, non più affidata alla regia della storia dell’arte ma all’empatia e alla meditazione.
Nove “meditazioni” dunque, singole sale che intendono offrire inediti spunti critici per svelare un lato diverso della Collezione Carlon che, come scrive la curatrice “non è solo la straordinaria sequenza di opere d’arte ammirate al primo piano, ma anche la sintesi di una vita sempre in discussione che il percorso cerca di rappresentare nell’iperbole di azzardati confronti e di dialoghi inusitati, per raccontare sé e il mondo, il personale e l’universale insieme”: tematiche eterne o di stringente attualità come il rapporto tra l’uomo e il cosmo, la natura e l’infinito, la sostenibilità ambientale.
Non è dunque un caso che nella prima sala e nella connessa vetrina – l’Antiquarium, omaggio alla Verona romana il cui cuore era l’attuale Piazza delle Erbe – accanto a sculture, fregi architettonici e manufatti ascrivibili tra il I e il III secolo d. C., provenienti da diverse parti dell’Impero, vi sia anche un piccolo busto in basalto di Serapide, dio di origine orientale il cui culto si diffuse in tutto l’Impero, inteso come signore del cosmo, dello spazio e del tempo; e che spicchi, nel bellissimo ambiente dai colori dell’argilla, una bella testa virile di marmo bianco dalle dimensioni superiori al vero, probabilmente raffigurante Marco Aurelio, l’imperatore filosofo autore di una delle più importanti opere letterarie del suo tempo: 12 libri di meditazioni intorno alla vita e al cosmo, intitolati A se stesso.
E mentre “I Gladiatori nella stanza”, opera di de Chirico del 1928–1929, ricordano i protagonisti dei combattimenti che animavano le arene, mostrando le sfide di ieri e di oggi per tornare padroni del proprio destino, la riflessione attonita dell’uomo contemporaneo è rappresentata dal “Testimone” (1991) di Mimmo Paladino, figura pietrificata ed enigmatica tra arcaismo e bizantinismo, che porta sul petto tre volti, forse le tre età dell’uomo, invitando a una riflessione sullo scorrere del tempo e sul valore della vita.
La seconda sala, Sulla metamorfosi del paesaggio e la “bella natura”, grazie al cortocircuito creato dal fascinoso intervento site specific di Chiara Dynys, eclettica artista contemporanea chiamata a confrontarsi con affreschi arcadici di paesaggi settecenteschi presenti sulle pareti. Due aforismi sulla natura di Johann Wolfgang von Goethe sono riproposti dalla Dynys in un’installazione dalla resa poetica, Over Nature, per attribuire – in una metamorfosi di senso – nuovo valore alle antiche vedute della sala, fatte partecipi dell’eccezionale incontro tra il grande interprete del romanticismo tedesco, ospite nella bella Verona nel 1786, e Antonio Canova, l’ineguagliabile scultore neoclassico a lui contemporaneo, cui si deve il bellissimo “Amorino” al centro della sala, opera appartenuta alla collezione Falier: un prezioso gesso di uno dei più celebri soggetti canoviani che ora il pubblico potrà ammirare, idealizzato nella sua nobile semplicità e composta bellezza.
Da un lato, dunque, l’afflato romantico di Goethe al quale partecipa la Dynys, con le sue grate dorate e i riflessi cangianti del vetro apposti sui dipinti delle sale – sorta di finestra aperta sul paesaggio in uno straniamento che Belli definisce quasi dechirichiano – dall’altro la pacata ed equilibrata “bella natura” di Canova: due visioni diverse dell’arte e della Natura stessa; differenti sensibilità che s’incontrano attraverso la creatività contemporanea.
Il tema del paesaggio torna anche nella terza sala – Vedute – per dar vita a un’altra meditazione, laddove a partire dall’Ottocento il paesaggio comincia a rapportarsi alle mutate condizioni di vita e alla dimensione urbana e la relazione uomo-paesaggio s‘innesta nella quotidianità. Verona è protagonista: ritratta, interpretata, analizzata da diverse angolature e prospettive, i pittori ne colgono il rapporto con la vita di tutti giorni e in questo contesto Piazza delle Erbe diviene soggetto privilegiato. Tra i vari artisti ricordiamo Carlo Ferrari detto il Ferrarin i cui dipinti erano amati anche da “turisti” stranieri come il maresciallo Radetzky e il principe russo Anatolij Demiov, o Carlo Canella, con un’inconsueta veduta di “Piazza Bra con il Palazzo della Gran Guardia” e con “i Mulini sull’Adige a sant’Anastasia”, ma soprattutto il veronese Renato Di Bosso che ci consegna una Verona dal sapore futurista.
Straniante e nel contempo di grande impatto appare la sala intitolata Sul perimetro del mondo e i suoi limiti che attraverso l’esposizione di pregiate cornici d’epoca – incredibile florilegio di forme e manifatture preziose- ci induce a riflettere sul senso del vuoto creativo che esse, pur nella loro bellezza, non riescono a colmare.
Mentre non sfugge, nella sala Sul sapere universale e la caducità delle cose, il diapason tra una visione positivista e controllata della natura e del sapere e la minaccia moderna della mortificazione del paesaggio e della natura attraverso la tecnologia. Da un lato gli autori delle nature morte seicentesche, alla ricerca del magistrale dettaglio della realtà, sono in dialogo con l’edizione integrale dell’Encyclopedie di Diderot e d’Alambert, summa del sapere universale del XVIII secolo e manifesto della fede progressista; dall’altro un capolavoro dei primi anni settanta di Mario Schifano, “Untitled”, deflagra il paesaggio, rendendolo in una versione quasi pop falsato e surreale, con immagini seriali affiancate a sagome bianche di probabili schermi televisivi, in un inevitabile contrasto tra tecnologia e natura, tra immagine reale e immagine riflessa.
Le meditazioni più profonde richiedono anche momenti di stasi e anche il percorso del secondo piano propone, speculare al primo, il salotto del collezionista, quasi un intermezzo d’autore in cui antico e moderno s’incontrano secondo le passioni e il gusto eclettico che hanno animato e continuano ad alimentare la ricerca collezionistica di Luigi Carlon. Tra arredi preziosi, come le magnifiche lacche veneziane del XVIII secolo e i commode sei-settecenteschi di manifatture fiorentine e veneziane, ecco allora Pietro Rotari con due bellissimi dipinti a soggetto biblico e mitologico – parte di una serie di quattro tele provenienti dalla casa veronese dello stesso artista (1734 – 1735, ) – o ancora la pittura dei Paesi Bassi con un paesaggio boscoso di grande qualità databile tra il secondo e il terzo decennio del Seicento, accanto ad una scultura dell’imponderabile Gino De Domincis, esposta al MOMA di New York nel 2008, e all’iconica Hope di Robert Indiana.
Natura, cosmo, finito e infinito impongono anche una meditazione su spazio e materia, questione al centro dei dibattiti nel panorama artistico del secondo dopoguerra. La sala che s’intitola Sulla natura dello spazio e della materia, con lo straordinario “Contrappunto semplice” (1971) di Fausto Melotti, equilibrio perfetto di pieni e di vuoti, riunisce Lucio Fontana, che taglia la tela mostrando ciò che sta oltre il telaio e nei Concetti spaziali la rigenera con il colore monocromo e frammenti di pietre; Pietro Manzoni che nei suoi “Achrome” la altera, la piega, la corruga e la ricompone; Alberto Burri che sceglie di esprimersi con sacchi d juta, legni bruciati o plastiche combuste e poi Fausto Melotti e Carla Accardi che agiscono con prepotenza attraverso i segni. La Accardi, grande protagonista dell’astrattismo europeo, è sempre stata una sperimentatrice, tanto nei lavori degli anni cinquanta quanto nella pittura su sicofoil degli anni sessanta e settanta, come “Verticale beige” (1973) opera esposta nella sala:una sorta di mosaico di segni ritagliati e fissati su un telaio di cui si scorge il retro bianco. L’infinito, oltre la superficie dipinta.
Trascinati oltre la terra e la natura che lo abita, oltre il finito, oltre il contingente, in questo magico percorso disquisiamo, entrando nella penultima sala, Sul cosmo e i suoi satelliti. L’illusionistico movimento circolare creato da Alberto Biasi in Dinamica ’62, con la sovrapposizione di strutture lamellari dalle cromie contrastanti, sembra volerci inghiottire in un vortice, mentre il Teatrino di Fontana ci porta in una nuova dimensione onirica. Ma è l’opera di Eliseo Mattiacci “Tempo globale” del 1991 a ricondurci al dialogo/confronto tra l’individuo e il mondo che lo circonda, tra l’io e il cosmo. Lo sciamano della materia e dello spazio, lo scultore dell’ordine cosmico, come è stato definito il Maestro scomparso nel 2019, affida all’opera esposta a Palazzo Maffei il compito di evocare l’entità incommensurabile dell’universo, che si espande ininterrottamente spinto da forze magnetiche in equilibrio tra loro, mentre da un nucleo sospeso emergono frammenti brulicanti di vita.
Infine, a una star dell’innovazione creativa, Daan Roosegaarde classe 1979, e a uno dei suoi spettacolari progetti che fondono tecnologia della luce interattiva, arte e sostenibilità ambientale – LOTUS – è affidato il compito di concludere il percorso nell’ultima sala di questo secondo piano, destinata a project room con proposte sempre nuove. Daan, membro anche della NASA innovation Team, le cui opere sono state esposte nei maggiori musei internazionali, è autore con il suo studio a Rotterdam di numerosi progetti sociali che affrontano il tema della salvezza del pianeta proponendosi di creare ambienti sostenibili. Nelle sue installazioni, come in “LOTUS Maffei” realizzato per il museo veronese – fiori intelligenti, sensibili alla luce e al calore che muovono le loro forme in base al contatto con gli esseri umani – unisce tecnologia e poesia ispirandosi all’idea di un’architettura organica. Nel dialogo tra luce e materia, siamo infine giunti alla metamorfosi contemporanea della natura
Palazzo Maffei
Piazza Erbe 38-38A, Verona
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.; 045 5118529; palazzomaffeiverona.com