LA SINDROME DI ASPERGER NON È UN LIMITE, È UN DONO

Il 18 febbraio è la giornata mondiale della sindrome di Asperger. Aspetti emotivi e relazionali. A colloquio con gli esperti.

Alfred Hitchcock, Andy Warhol, Charles Dickinson, Mozart, Virginia Woolf, Nikola Tesla, Albert Einstein, Abraham Lincoln. Tutti personaggi appartenenti ad epoche storiche differenti, ma che hanno dettato il corso degli eventi e della cultura di intere nazioni. Ma c’è un altro aspetto che li accomuna: sono affetti dalla sindrome di Asperger.

“Non esiste una terapia univoca, in quanto ogni soggetto presenta delle peculiarità differenti, ma è possibile acquisire delle strategie specifiche e personali per far fronte alle difficoltà che questa sindrome comporta”, spiega la psicologa e psicoterapeuta Silvia Riboldi, consulente del portale Formazione Infanzia di Mustela.

Il termine fu coniato dalla psichiatra britannica Lorna Wing in una rivista medica risalente al 1981 in onore di Hans Asperger, uno psichiatra e pediatra austriaco. Oggi, la sindrome di Asperger non è tecnicamente più una diagnosi a sé stante: dal 2013 è stata inserita come sottocategoria del disturbo dello spettro autistico (ASD) nel libro di salute mentale “The Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5)”. I sintomi dell’Asperger, seppur difficili da riconoscere, si manifestano già dai primi anni di vita del bambino. “Il soggetto è dotato di un buon funzionamento cognitivo, spesso caratterizzato da un alto quoziente intellettivo”, prosegue la dottoressa. Le difficoltà si riversano nei rapporti sociali, nelle abilità comunicative e nella capacità di adattamento in contesti sociali che il soggetto non riconosce come familiari. “La poca empatia, l’ipersensibilità sensoriale (indossano solo alcuni tessuti, sono infastiditi dai suoni acuti e prediligono solo alcuni alimenti), la bassa elasticità di pensiero (tutto è bianco o nero, non esistono vie di mezzo) e lo sviluppo di fissazioni particolari, sono alcuni dei principali sintomi”, spiega l’esperta. Ne consegue la difficoltà ad interagire con i propri coetanei, soprattutto per i bambini. “Istituzioni come la famiglia e la scuola giocano un ruolo fondamentale nell’integrazione dell’individuo all’interno della società”, sottolinea la psicologa Silvia Riboldi. Più che un’educazione al comportamento, i ragazzi devono ricevere un’educazione alle emozioni: avere una teoria della mente significa riuscire ad attribuire stati mentali, credenze, emozioni, desideri, intenzioni e pensieri, a sé e agli altri per spiegare e prevedere la messa in atto di comportamenti. Con le giuste attenzioni, il bambino può imparare a controllare alcune delle sfide sociali e di comunicazione che si trova ad affrontare ogni giorno, a considerare questo disturbo come un dono innato e non come un limite alla realizzazione personale.

 

 

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